GIULIO SPERANZA PHOTOGRAPHY
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BLOG

Linhof Technikardan S 45: il banco che si nasconde in una folding!

11/17/2020

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La Linhof Technikardan S 45 in azione sulla vetta di Monte San Franco, Gran Sasso d'Italia, con il grosso e pesante Symmar-S 360mm.
INTRODUZIONE

​Folding o monorail? Leggerezza e trasportabilità o espandibilità e facilità d’uso? Comodità o precisione? Sul campo o in studio?
Sono queste alcuni dei dilemmi che affliggono chi si appresta ad entrare nel mondo del Grande Formato e delle fotocamere a corpi mobili e deve scegliere su quale strumento puntare. Meglio una fotocamera field/folding o un banco ottico vero e proprio? Sono domande a cui non è facile rispondere, perché dipendono in ultima analisi dall’approccio di ognuno di noi e dalle nostre necessità.
Se però esistesse una via di mezzo? Un ibrido tra le due grandi famiglie? Un ponte che colleghi i due estremi? Potrebbe essere la soluzione! Certo! Ma c’è? Beh… La risposta è sì: la Linhof Technikardan.

Andiamo in Germania, quindi, dove ha sede la famosissima casa di Monaco, che credo non abbia bisogno di ulteriori presentazioni. Simo tra gli anni ’80 e ’90 e alla Linhof sono ormai da parecchio tempo stabilizzati sulle due linee principali di camere grande formato: i banchi della serie Kardan e la celeberrima folding all-metal Technika. I due filoni hanno storie assai lunghe alle spalle, e procedono in parallelo, come accade per altre famose aziende del tempo (Toyo, Horseman…).
Ed ecco l’idea: creare una nuova fotocamera, nuova nel senso che non si è ancora visto nulla del genere fino a quel momento. Una fotocamera che fin dal nome scelto la dice lunga su quello che vuole essere. Technikardan, infatti, è semanticamente il merging della Technika e del Kardan, quindi un vero e proprio ibrido che vuole condensare in sé il meglio delle due “famiglie”, promettendo di essere una risposta all’eterno dilemma su cosa scegliere. Idea semplice e ambiziosa al tempo stesso. Sarà riuscita la Linhof a vincere questa sfida? Lo vedremo a breve.

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L'inverno 2016/17 in Abruzzo: analisi e considerazioni.

3/4/2017

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Con l'inizio della primavera meteorologica (1 marzo) si è ufficialmente conclusa la stagione invernale 2016-17 anche in Abruzzo. Vorrei analizzare, ovviamente con l'ausilio delle fotografie, l'andamento di questo periodo così turbolento che molto probabilmente passerà alla storia per l'indubbiamente tragico e assai emotivo disastro dell'Hotel Rigopiano, un singolo evento che, complice anche l'assordante bombardamento mediatico, ha finito con l'etichettare l'intera stagione come un inverno storico, da record, d'altri tempi per quanto riguarda freddo e neve. Falso? Non del tutto. Ma come ho scritto altre volte, mi interessa analizzare le cose partendo dai dati per poi cercare di dare un giudizio il più possibile onesto e non emotivo. Al netto di ciò che è successo, si possono trarre interessanti riflessioni dall'andamento di questa stagione, senza focalizzarsi troppo sul singolo evento e guardando le cose alla giusta scala, altrimenti corriamo il rischio di estrapolare un fatto locale e di estenderlo a scala nazionale o globale.
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23 novembre 2016, la dorsale tra il Monte Tremoggia e il Monte Camicia, versante NE (porzione meridionale della catena del Gran Sasso). Scatto realizzato su pellicola bianco e nero grande formato (4x5").
L'inverno meteorologico 2016/17 inizia il 1 dicembre dopo un autunno tutt'altro che freddo e soprattutto decisamente avaro di neve. Se escludiamo un paio di deboli irruzioni fredde dai Balcani, che portano a modesti accumuli nevosi, peraltro di brevissima durata, solo sui monti più orientali, Gran Sasso e Majella su tutti, succede poco o nulla. Così, come si apprezza dalla foto in alto, si arriva alla fine dell'autunno praticamente senza neve sui monti. Tenete conto che la cima più alta nell'immagine sfiora i 2500m, e al 23 novembre presenta solo alcuni modesti accumuli residui. Dicembre inizia senza grandi scossoni. Un solo evento perturbato, ancora dai quadranti orientali, imbianca nuovamente all'inizio del mese Gran Sasso, Majella e zone orientali del Parco Nazionale d'Abruzzo. Il resto dell'Appennino Centrale rimane abbastanza all'asciutto. La situazione prosegue nelle settimane successive e si arriva a fine mese con le montagne in condizioni quasi grottesche.

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Il comprensorio sciistico di Monte Cristo - Campo Nevada (Gran Sasso)

12/20/2016

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Una fredda mattina di metà dicembre lungo quelle che erano le piste e gli impianti di Monte Cristo. Linhof Technika IV 4x5", pellicola Tmax100, lente Nikkor 150mm.
Vi presento questa volta alcuni scatti relativi all'ennesima storia italiana in cui investimenti sbagliati, speculazione e abbandono si intrecciano con gli innegabili cambiamenti climatici. Il tutto in un'area oggi Parco Nazionale: gli impianti sciistici di Monte Cristo e le strutture di Campo Nevada, sul Gran Sasso in Abruzzo.

Monte Cristo è una tondeggiante prominenza montuosa alta poco più di 1900m (1928m per la precisione), posta tra Campo Imperatore e il "Piccolo Tibet" d'Abruzzo, di cui rappresenta un po' la fine verso nord-ovest. Appena più a nord si trova il Monte Scindarella, che ospita gli impianti e le piste di Campo Imperatore. Tra i due, la depressione della Fossa di Paganica con i resti della fu iniziativa edilizia di Campo Nevada. La strada che porta da Fonte Cerreto verso Campo Imperatore lambisce queste realtà prima di portare i turisti verso il famoso altipiano e le cime maggiori del massiccio.

Sugli erbosi pendii di Monte Cristo intorno agli anni '70 del 1900 erano stati messi in opera alcuni impianti di risalita, alternativa più bassa e relativamente protetta rispetto a quelli di Campo Imperatore, spesso funestati dal vento e dalle tormente. Gli impianti a fune salivano da ovest fino alla piatta cima della montagna e permettevano la discesa sul versante settentrionale fino alla Fossa di Paganica dove, collegata all'attività sciistica, era stata costruita e quasi ultimata una struttura alberghiera (anzi due).
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La vista verso sud-est dalla cima di Monte Cristo, con il piano di Campo Imperatore, il Monte Camicia sulla sinistra e in primo piano il fu skilift che saliva dalla Fossa di Paganica.
È una piacevole mattina di metà dicembre quando mi metto in marcia per un'escursione esplorativa di quest'area. Sono già stato in passato alla Fossa di Paganica, ma questa volta voglio avere un quadro più complessivo, salendo anche alla cima di Monte Cristo. Come purtroppo sta succedendo sempre più frequentemente negli ultimi anni, siamo a metà dicembre e sui monti non c'è un filo di neve. Solo qualche chiazza residua dalla modesta nevicata di novembre. Seguo una carrareccia frequentata dal bestiame che d'estate popola numeroso questi pascoli e arrivo, dopo una bella fontana, in una zona pianeggiante da cui partivano tre degli impianti del comprensorio, con relative costruzioni di servizio. Tutto ovviamente in avanzato abbandono. In una delle strutture ci sono ancora i vecchi cartelli con i nomi delle piste. Con un po' di fatica raggiungo la cima del monte, dove la fanno da padrone cavi d'acciaio arrugginiti e il vecchio skilift che saliva dall'altro versante. Peccato perché la vista verso Campo Imperatore, il Monte Camicia e il "Piccolo Tibet" è magnifica e insolita. Mentre qualche nuvola supera la cresta della Scindarella, ora di fronte a me, scendo velocemente sul versante nord verso le evidenti strutture edilizie di Campo Nevada. Qui pare che i soldi siano finiti poco prima del completamento degli edifici, che oggi versano in precarie condizioni e sono la casa estiva dei pastori con relativi greggi di pecore. Non c'è che dire, questa speculazione edilizia era e rimane un vero pugno nell'occhio, troppo fuori luogo tra questi spazi magnifici che davvero sembrano appartenere al continente asiatico o al far west americano. Mentre rifletto un forte vento e qualche fiocco di neve mi spingono a tornare.

Che dire, un luogo sospeso, come spesso accade alle realtà abbandonate, tra quello che era, il precario riutilizzo attuale e quello che potrebbe essere. La bellezza della natura di questi luoghi non si discute ed  sotto gli occhi di tutti. Le tradizionali attività agricolo/pastorali sono ancora attive e i prodotti tipici sicuramente qualcosa su cui puntare molto. Il Parco Nazionale resta una realtà un po' secondaria, ma comunque di richiamo. Lo sci, si sa, è stato ed è ancora un mito foriero di grande sviluppo economico e benessere. Penso però che oggi bisogna fare i conti con la situazione climatica che indubbiamente non è quella di una volta e realtà come quelle di Monte Cristo difficilmente funzionerebbero senza innevamento artificiale. Progetti fantomatici di un recupero delle strutture e collegamento con gli impianti di Campo Imperatore ci sono, ma restano solo sulla carta. Intanto l'abbandono rimane e chi ama questi luoghi come ve vorrebbe vedere queste tracce del passato cancellate o riutilizzate in modo intelligente per un vero sviluppo sostenibile del territorio.
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Venetian Diurnal premiato all'ND Awards 2016

11/27/2016

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Con grande soddisfazione ho appreso che una selezione della mia serie "Venetian Diurnal" è arrivata al secondo posto nella categoria Cityscapes/Paesaggio Urbano nell'ambito del prestigioso concorso fotografico internazionale ND Awards. Si tratta del secondo premio per queste immagini, dopo la menzione d'onore al Moscow International Foto Awards di un anno fa. Vi presento in questa gallery le 5 foto vincitrici, che ho leggermente rielaborato rispetto alla versione originale.

Si tratta di visioni urbane di Venezia in una luminosa giornata primaverile. Ho deciso di escludere i luoghi più famosi della città, già universalmente noti e fotografati, concentrandomi su visioni "ordinarie", popolate da turisti e abitanti. Per trasmettere la sensazione di bellezza e luminosità del giorno in cui le ho scattate ho anche optato per una decisa sovraesposizione.

Sono ancora più soddisfatto perché ho ricevuto anche altre tre menzioni d'onore, di cui due per fotografie scattate in analogico grande formato, tra cui quella delle Tre Cime di Lavaredo che vedete qui sotto. È la prima volta che accade e ciò non può che stimolarmi a continuare la mia ricerca, cercando sempre di migliorarmi e alzare l'asticella. 
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Questo scatto delle Tre Cime di Lavaredo viste dal Lago di Misurina dal titolo "The B Side" ha ottenuto la menzione d'onore nella categoria Fine Art Landscape. Realizzato con una fotocamera grande formato (4x5") su pellicola bianco e nero, rappresenta appunto il "Lato B" delle Tre Cime, conosciute in pratica solo per il loro versante settentrionale. Questa vista però è caratterizzante di queste montagne così come lo sono le verticali pareti nord e vuole stimolare l'osservatore a non fermarsi alla parte più nota ed esteticamente attraente delle cose, ma a girarci intorno e approfondire con curiosità la ricerca, per avere una conoscenza più completa delle cose!
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Monte Terminillo tra passato e futuro.

11/8/2016

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Il Terminillo è la montagna più conosciuta nella Capitale, e infatti è nota anche come “La montagna di Roma”. Il suo versante occidentale è chiaramente visibile dalla città e circa un’ottantina di km di Salaria più un po’ di curve la separano dai condomini romani. Dall’alto dei suoi 2217 m domina la conca reatina ed essendo relativamente isolato rispetto agli altri gruppi montuosi dell’Appennino Centrale, dai suoi pendii si gode un panorama eccezionale. Se fino agli anni ’20 del 900 si poteva raggiungere solo tramite sentieri o a dorso di mulo, è con la visita di Mussolini che, negli anni ’30, inizia la “colonizzazione” per fini turistici, con la costruzione della strada e poi, nel 1940, delle piste da sci e della funivia. Il periodo d’oro è quello che va dagli anni ’50 agli anni ’70, quando diventa un vero e proprio punto di riferimento per il turismo estivo ed invernale per il centro Italia ed è frequentato anche da molte personalità di rilievo del mondo politico e dello spettacolo. Il declino inizia negli anni ’80, per mancanza di investimenti e per la concorrenza sempre più forte delle stazioni sciistiche abruzzesi, che sono ora raggiungibili molto più agevolmente grazie alla costruzione dell’autostrada Roma-L’Aquila. La situazione non è cambiata nell’ultimo periodo, gli impianti sciistici sono ormai obsoleti (si pensi che la funivia è ancora quella del 1940) e i numerosi condomini, alberghi e ville che sono nati negli anni del boom sono ormai quasi sempre vuoti se non abbandonati. Ci sono progetti di ampliamento volti a collegare le piste del versante Reatino con quelle di Leonessa, ma, come succede a tante cose italiane, tutto rimane sospeso per anni. 

È con queste informazioni in mente che mi sono avvicinato assieme all’amico fotografo Roberto Mirulla per una prima “esplorazione” fotografica del Terminillo. In realtà ci ero già passato diverse volte, ma la forma mentis con cui arrivavo era sempre quella dello sci alpinismo o del trekking, quindi gli aspetti socio-architettonici e la ricerca fotografica in senso lato non avevano mai attirato la mia attenzione. Ora però è tutto diverso. Anche gli strumenti sono cambiati. Con la Linhof Technika 4x5” e la Rolleiflex ho iniziato un nuovo percorso di conoscenza di questi luoghi.

La tiepida giornata di autunno inoltrato mi ha regalato emozioni contrastanti: paesaggisticamente parlando il posto era e rimane magnifico. Le grandi faggete che coprono i fianchi della montagna cedono gradualmente il posto ai pascoli e poi ai pendii via via più brulli verso la cima. La strada sale tortuosa regalando viste magnifiche verso ovest sulle dorsali montuose fino alla città che si perde nella foschia. Bello, ma, certo, questo era già così prima dell’antropizzazione, che poi è quello che mi interessa veramente. Ecco quindi che si arriva prima a Pian dé Valli e poi a Campoforogna. Ecco i grandi residence e condomini, ecco le ville più o meno eleganti perse tra gli alberi. Le piazzette, qualche negozio, la vecchia funivia e la grande chiesa di San Francesco. Sembra di fare un viaggio indietro nel tempo negli anni ’60. Sacche del periodo d’oro resistono accanto a palesi decadenze e timidi rinnovamenti. Si percepiscono le origini ante guerra, ci si perde nel marasma della speculazione del dopo guerra e poi... Nulla. Poi una troncatura, uno hiatus come direbbe un geologo. In effetti sembra di essere in una specie di limbo, una sorta di riedizione nostalgica degli anni che furono. Un po’ di gente c’è (è domenica). L’autunno certo non è da nessuna parte il momento del pienone, ma è indubbio che qui i tempi d’oro sono passati.  Salendo verso gli ultimi condomini più alti il discorso non cambia, anzi, c’è anche la diruta e assurda Villa Chigi (che i nostalgici chiamano “di Mussolini)”, però fa un certo effetto vedere il grande campo di atletica ben tenuto e curato. Forse qualcosa si muove e nel complesso tutto ciò che è di antropico non disturba neanche troppo, anzi interessa per quello che è e che ha rappresentato. Un momento della storia della nostra nazione in cui c’era una spinta che oggi dovremmo ritrovare, certo orientandola in altre direzioni magari, ma di cui avremmo un gran bisogno.
​

Torno da questo primo viaggio con tre scatti su pellicola piana e un rullo 120. Ho scelto il bianco e nero per questa volta, mi interessava iniziare con una analisi più formale ed estetica. Ma ci torneremo presto, anche con la neve. ​

Terminillo.net
Terminillo su Wikipedia
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La chiesa di San Francesco al Terminillo (Pian dé Valli), costruita tra gli anni '50 e '60 del 1900. Linhof Technika IV 4x5", pellicola TMax100, lente Super-Angulon 90mm.
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Villa Chigi al Terminillo, costruita negli anni '30 del 1900 ed oggi in abbandono. Numerosi i progetti di recupero, per ora senza esito. Linhof Technika IV 4x5", pellicola TMax100, lente Super-Angulon 90mm, filtro giallo 12.
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L'ingresso di Villa Chigi al Terminillo, con splendido panorama verso sud. Linhof Technika IV 4x5", pellicola TMax100, lente Super-Angulon 90mm.
Segue una piccola galleria di immagini realizzate con fotocamera Rolleiflex 3.5F su pellicola Iford FP4+
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Una foto per un'analisi del territorio.

9/9/2016

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Della fotografia come analisi e descrizione del paesaggio ho già parlato in un altro post. Qui vi presento un esempio sul tema, o una variazione se volete, mostrandovi come una foto, una di numero, possa essere utile ad una valutazione, come in questo caso, della qualità e quantità di utilizzo del suolo in una data area. Tema quasi scientifico in effetti, ma in realtà denso di significati.

​Prima di tutto, il dove siamo: Valle dell'Aterno, non lontano dall'Aquila, tra i comuni di Fossa e Poggio Picenze. Poi il quando: luglio 2016. Aggiungo un "da dove" (è stata scattata la foto): bordo della rupe del Castello d'Ocre. Ok, gli elementi base ora li conosciamo. Vediamo di approfondire con le immagini della gallery che vedete in alto.

Queste fotografie ci danno una descrizione asettica e impersonale (acritica dovrei dire) della zona e ci permettono di fare alcune valutazioni. A quanto pare abbiamo a che fare con un'area a vocazione agricola, non sappiamo cosa si coltivi dato che c'è già stata la raccolta, ma presumibilmente grano. Area per lo più pianeggiante, se si eccettua il pendio in lontananza coperto di alberi e arbusti e il punto di scatto della foto (decisamente in alto rispetto al piano). Non è una foto aerea, questo ve lo dico io. Accanto all'agricoltura sembra stiano prendendo piede anche alcune attività industriali. Non è dato sapere da quanto tempo vi siano qui attività di questo tipo, ma di certo il consumo del suolo per questo fine sta procedendo a grandi passi, come si nota dal grande capannone in costruzione e da altri terreni in preparazione. In effetti, se si eccettuano i versanti montuosi in fondo, l'utilizzo del suolo per gli scopi appena citati è pressoché totale.

Veniamo ora alle considerazioni sui centri urbani. Se ne vedono in lontananza, ma sono troppo distanti per una valutazione oggettiva. Vediamo prima di tutto il più vicino. Si tratta di un borgo apparentemente antico, bei tetti, torre e vecchia cinta muraria, chiesa e piazza. Si tratta del paese di Fossa. Se ci soffermiamo un po' ad osservare, notiamo due cose: non c'è praticamente nessuno, né macchine né persone. Il fianco della chiesa è puntellato. Aha, ma è vero, qui 7 anni fa c'è stato un forte terremoto, certo. Difficile valutare la situazione del paese da qui, ma qualche indicazione l'abbiamo avuta. Proseguendo si nota il piccolo agglomerato di Cerro. Un gruppo di casette ordinate e qualche costruzione più vecchia. Di quando saranno le casette? Prima o dopo il terremoto? Forse prima, data la dimensione delle piante nei giardini, ma non è detto, difficile dire. Anche qui in pratica nessuna macchina. Proseguendo ancora si può osservare un altro nucleo. Questo si sembra fatto di casette post-sisma, quasi dei MAP. Più altre strutture che fanno pensare alla ricostruzione (o meglio alla costruzione). Qui invece di macchine ce ne sono eccome, quindi una zona residenziale discretamente abitata, Forse da quelli di Fossa?

E ovviamente si potrebbe proseguire! E pensare che tutto ciò si può desumere in base ad una sola foto, di cui le immagini in alto non sono altro che dei dettagli. Magari se date questo materiale ad un botanico vi dice che alberi ci sono, ad un architetto che vi dirà lo stile delle abitazioni ecc. Insomma tutto ciò per dire che un'immagine scattata con criterio può essere una inesauribile fonte di informazioni. In questo senso l'uso del grande formato dà quella ricchezza di dettagli e precisione formale che è ideale in casi di studio come questi.
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La valle dell'Aterno vista dal Castello d'Ocre. Linhof Technika IV, pellicola Ektar 100, obiettivo da 150mm.
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Il Parco Eolico di Collarmele

9/6/2016

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Il Parco Eolico di Collarmele. Scatto realizzato in grande formato su pellicola Kodak TMax 100.
In Abruzzo, nel territorio dei due piccoli comuni di Collarmele e Cerchio, già Parco Regionale Velino-Sirente, è stato realizzato a partire dal 1998 quello che oggi è uno dei più grandi parchi eolici d'Italia. Non può fare a meno di notarlo chi percorra la A25 Torano-Pescara, che passa solo poche decine di metri più in basso rispetto alle bianche pale eoliche, sparse sulla larga e brulla dorsale di monti dello spartiacque tra la Piana del Fucino nella Marsica e la parte più esterna della conca Peligna. Le piccole torri monopala iniziali sono state sostituite negli anni da macchine più moderne e potenti, che ora assicurano una produzione di energia elettrica sufficiente al consumo di 50.000 famiglie.

Negli anni ho involontariamente seguito l'evoluzione di questa installazione nei miei spostamenti in auto per andare sui monti. Ho invece badato poco all'immancabile dibattito che ha suscitato questa iniziativa, di cui peraltro il Parco è uno degli enti promotori. Devo dire che mi interessa pochissimo la diatriba sugli eventuali danni alla fauna locale, specie all'avifauna, e ancor meno la discussione sull'estetica delle pale.  Questo perché sono in linea di massima un deciso sostenitore dei sistemi di produzione di energia pulita e rinnovabile. Essendomi specializzato in geologia degli idrocarburi (cioè l'esatto opposto) ed avendo nel mio percorso universitario studiato anche un altro affascinante sistema di produzione di energia rinnovabile come la geotermia, credo di possedere le conoscenze per giudicare con un minimo di criterio. Credo fermamente invece che spesso chi parla di queste cose, sia a favore che contro, lo faccia senza conoscenze e con buona parte di ideologia.

Ma, devo ammettere, anche io non essendo mai stato prima letteralmente ai piedi di una pala eolica, non potevo dire di giudicare con assoluta onestà. Quindi, ora che sono un fotografo, mi è sembrato doveroso prendere un contatto ravvicinato con questi giganteschi mulini a vento. Così eccomi qui a raccontarvi per immagini e parole le mie sensazioni. Come detto, il parco eolico sorge su una larga, articolata e brulla dorsale montuosa, con quote che arrivano massimo sui 1400-1500m. Si tratta della zona più depressa della lunghissima catena montuosa che inizia a nord con il Monte Sirente e continua più a sud, nel Parco Nazionale d'Abruzzo, con la Montagna Grande e finisce con il Monte Marsicano. Una zona di confine tra versante adriatico e la conca interna del Fucino, quindi sempre molto ventosa. La vocazione storica di quest'area è sempre stata l'allevamento (ovini e bovini) e un poco di agricoltura d'alta quota.

L'escursione che ho fatto mi ha permesso, partendo da un vecchio fontanile, di percorrere un giro ad anello andando letteralmente a toccare con mano le strutture metalliche che sostengono le pale. Le emozioni che ho provato sono contrastanti. Meraviglia e soggezione per questi giganti, veramente bisogna avvicinarsi per capire quanto sono grandi; felicità nel vedere il movimento continuo che genera elettricità in modo totalmente pulito; un po' di ansia nel sentire il sibilo del vento sulle superfici che sfrecciano veloci; divertimento nel vedere l'ombra delle pale saettare sull'erba secca. L'impatto di queste strutture sul paesaggio è visivamente innegabile, specie qui in Italia dove siamo poco abituati a vedere manufatti che non siano strutture abitative o industriali. L'allevamento non è in nessun modo limitato, dato che che non c'è alcuna recinzione sotto le pale e prova ne è l'abbondanza di escrementi in tutta l'area. La sensazione più "negativa" mi è stata chiara solo quando mi sono fermato in una zona senza torri eoliche. Una parentesi del classico paesaggio abruzzese e ho capito: era quel continuo movimento e quel sibilo che mi aveva causato un po' di inconsapevole ansia. Ma la sensazione è durata poco, troppo più importante il risultato: energia pulita e rinnovabile all'infinito. Devo poi dire che questa sensazione si ha solo nelle immediate vicinanze delle torri, mentre svanisce presto quando le si guarda da lontano.

La conferma del mio giudizio positivo l'ho avuta nel paese di Collarmele. Completamente distrutto dal terremoto del 1915 e ricostruito, oggi è un piacevole centro pulito e curato, decisamente sopra la media dei paesi limitrofi. Ciò è dovuto anche ai soldi che arrivano nelle casse comunali dalla società che gestisce il parco eolico e con cui si sono potuti costruire parchi giochi per i bambini, mettere i fiori, pulire le facciate delle case e curare la manutenzione. Certo il paese è abitato solo da anziani, ma questa è un'altra storia. Concludo quindi con un giudizio personale positivo, che rafforza la mia convinzione sulla necessità dell'uso sempre maggiore di questi sistemi. L'impatto complessivo, al netto del giudizio personale sull'estetica delle torri, è limitato e comunque meglio "consumare" territorio così che continuare a cementificarlo come abbiamo fatto troppo e male. Infine, prima di giudicare, invito chiunque a farsi un giro sotto questi giganti. Poi ne parliamo.
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La Val d'Orcia, immagini del paesaggio parallelo.

8/29/2016

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La Val d'Orcia, in Toscana, provincia di Siena, è patrimonio mondiale dell'umanità UNESCO per le sue eccezionali caratteristiche naturali, culturali e artistiche. Fin qui nulla da dire, personalmente conosco bene questi luoghi e li ritengo più che meritevoli di questo riconoscimento. La sua fama è ben nota anche oltre i confini nazionali e prova ne è il flusso molto intenso di turisti stranieri che per buona parte dell'anno visitano la zona. Ovviamente potete immaginare la mole di immagini che vengono scattate, da fotografi amatori, professionisti o semplici turisti. Fatalmente, come accade spesso per le zone più "belle", è quasi sempre l'estetica a dominare questi scatti. Bisogna inoltre notare come vengano riproposte in tutte le salse quelle che ormai sono noti come i punti più "belli" all'interno della zona "bella", con una sorta di perpetua imitazione reciproca nel difficilissimo tentativo di tirare fuori lo scatto più bello di tutti.

Premettendo che capisco benissimo le foto "turistiche" e di quanti vogliano portare con se ciò che ritengono più bello, anche a me è capitato tante volte di farlo, e non volendo in nessun modo, come ho scritto in un altro post, criticare la ricerca estetica, voglio solo stimolare chi fa ricerca fotografica ad andare oltre. Percorrendo le stradine della valle, guardandosi attorno, ci sono altri elementi che contribuiscono all'insieme del paesaggio di quest'area, magari dissonanti, non "belli" o poco interessanti rispetto a quello che si vede normalmente e per questo spesso ignorati. Io credo che anche questi elementi, al pari di quelli esteticamente più accattivanti, abbiano la dignità di essere fotografati nell'ambito di uno studio paesaggistico della Val d'Orcia. Così le ex cave di ghiaia lungo l'omonimo fiume, i tanti casali malandati e semi-abbandonati, i fossi, le grandi strutture delle cooperative agricole fino alle industrie dismesse (vedere questa gallery) fanno parte del paesaggio della valle così come i campi, le dolci colline, i cipressi e i borghi antichi.

Il mio punto di vista e il mio consiglio quindi per chi voglia realizzare una documentazione sul paesaggio di un qualsiasi luogo, è di non tralasciare nulla, non farsi distrarre solo dalle cose più evidenti e fotografare le cose così come si vedono, e non come si vorrebbe che fossero, tralasciando di aspettare la luce giusta, la stagione giusta, l'attrezzatura giusta ecc. Ritengo che in questo genere di lavoro ciò che conta è il contenuto prima di tutto. Buona ricerca!
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Sulle Dolomiti in grande formato

8/16/2016

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Vi presento questi tre scatti eseguiti in grande formato 10*12cm (4x5") nella bellissima area delle Dolomiti di Sesto, in Alto Adige.  Sono tre fotografie di cui sono abbastanza soddisfatto, soprattutto della prima, quella che ritrae il versante nord delle celeberrime Tre Cime di Lavaredo. La mia soddisfazione non sta tanto (o non solo) nella bellezza delle immagini, quanto nel fatto che rappresentano un progresso nel mio approccio alla fotografia analogica, che si sta sempre più spostando dal medio al grande formato.

Dietro un singolo scatto come questi infatti c'è molto lavoro, dal caricamento delle pellicole piane negli chassis nel buio più totale, al peso e complessità dell'attrezzatura, a tutta una serie di passaggi obbligati che occorre seguire durante le fasi di scatto e dopo di esso, rischiando anche saltandone uno solo di gettare alle ortiche tutto il lavoro, fino allo sviluppo finale in camera oscura. Capite bene che scattare in questo modo con successo può regalare grandi soddisfazioni e richiede molta attenzione, cosa che ritengo di grande aiuto per ottenere i risultati migliori. Inoltre, come ho avuto modo già di scrivere in un altro post a proposito del paesaggio, il grande formato ha come peculiarità una "qualità" dell'immagine, intesa come fedeltà complessiva alla scena "reale", veramente eccezionale.

Per chi è interessato ai dettagli, ho scattato con una Linhof Technika IV e ottica Nikkor 150mm o 210mm. Ho usato sempre un filtro giallo (n°12) per scurire leggermente il cielo e dare una miglior resa complessiva alle diverse tonalità di grigio. Tutti gli scatti sono stati eseguiti con la fotocamera su treppiede. Per calcolare l'esposizione ho usato un esposimetro esterno, usato in modalità spot con angolo di lettura di 5°. Ho sempre calcolato la luminanza delle varie aree del soggetto, cercando di porre le porzioni più scure non al di sotto della zona III, ovvero due stop sotto il grigio medio.

​Andiamo avanti, pensando sempre più in Grande ;-)
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La parete nord delle Tre Cime di Lavaredo (Drei Zinnen) viste dal Rifugio Locatelli - Innerkofler. Pellicola Iford Delta 100 sviluppata in Rodinal. Questo è lo scatto di cui sono più fiero perché mi è costato 1000m di dislivello in una caldissima giornata estiva!
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Le Tre Cime di Lavaredo (Drei Zinnen) viste dal Lago di Misurina. Pellicola Iford Delta 100 sviluppata in Rodinal.
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La Croda Rossa di Sesto e la Cima Undici (tra le nuvole) viste da Waldheim (Sesto - Sexten). Pellicola Ilford Delta 100 sviluppata in Rodinal.
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La fotografia come analisi e documentazione del Paesaggio

8/1/2016

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Vi presento due scatti dal soggiorno sulle Dolomiti di Sesto del giugno scorso. Due scatti in grande formato (10*12cm) su pellicola a colori Ektar 100. Due "Cartoline", come le intendo io, in cui sono rappresentati il Rifugio Locatelli - Innerkofler con il Monte Paterno sullo sfondo in una, e la Val Campo di Dentro (Innerfeldtal) con il Monte Mattina al centro nell'altra. Di sicuro non sono foto di grande impatto estetico e devo dire che avrei potuto fare di meglio. Mi danno comunque la possibilità di esprimere il mio pensiero riguardo la fotografia di paesaggio.

Di fatto io nasco come ricercatore scientifico e quindi non posso fare a meno di pensare la fotografia come un eccezionale strumento di analisi del territorio, cosa che facevo prima raccogliendo dati e campioni di rocce. Ora vado in giro con la fotocamera e raccolgo immagini del mondo che mi circonda. Ritengo che tutto sia degno di essere fotografato, ammesso che si abbia qualcosa da dire, ma al tempo stesso, circondati come siamo di immagini che tendono spesso a rappresentare, nella foto di paesaggio, solo le cose belle o solo il bello delle cose, sono portato spesso a fotografare ciò che è normalmente ritenuto meno interessante, ordinario, non brutto ma magari insignificante, o ancora a ritrarre cose ritenute universalmente belle in modo normale e senza fronzoli.

Troppo spesso infatti certa foto paesaggistica tende ad esaltare una scena con la luce "giusta", i colori al massimo del fulgore, contrasto, chiarezza, vignettatura, cromatismi artificiali, ecc. Insomma si imbottiscono le immagini di sovrastrutture che, se a volte possono essere apprezzabili, di notevole impatto e ovviamente veicolano al massimo l'esaltazione dell'estetica di un luogo, altre volte invece sono eccessive e controproducenti in quello che dicevo prima dovrebbe fare una buona foto di analisi del paesaggio: descriverlo per quello che è "normalmente". Per fare questo, ovviamente ammesso che sia il nostro obiettivo, non serve caricare le immagini con chissà quali artifici, basta accostarci ad una scena con occhio attento e osservare ciò che ci circonda. I dati scientifici vanno raccolti senza preconcetti o modelli già in testa, altrimenti si pecca di poca onestà intellettuale e si tende a forzare il dato a rappresentare il modello che si ha in testa. La fotografia, per carità, non deve sottostare a queste regole, viva la libertà espressiva. Però credo che un'immagine libera di troppi fronzoli permetta una riflessione ed una analisi più attenta e oggettiva della scena rappresentata. In questa mia idea la fotografia analogica in grande formato è la compagna ideale! La ricerca continua!
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Si arriva al limitare di questo splendido pascolo dopo una breve ma faticosa (specialmente con un banco ottico sulle spalle!) salita tra bassi alberi e arbusti che lottano contro le rocce e le valanghe che scendono dalle scabre e altissime pareti della Cima dei Tre Scarperi.
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Il Monte Paterno fu uno dei grandi teatri della Prima Guerra Mondiale lungo in fronte Italo-Austriaco. Un secolo fa italiani ed austriaci si confrontavano aspramente tra gallerie, percorsi attrezzati e trincee. Nel tentativo di trovare una via alternativa alla cima morì la grande guida alpina austriaca Sepp Innerkofler.
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